Monitorare il siero innesto: ora c’è un metodo veloce

I ricercatori del Distas dell’Università Cattolica hanno studiato un nuovo metodo innovativo

Il Grana Padano, uno dei vanti del comparto caseario italiano e una delle più grandi Dop europee (prodotti a Denominazione di origine protetta), ha alle spalle una storia quasi millenaria e una tradizione più che consolidata. Eppure, ha costantemente bisogno di cure. E a occuparsene, oltre agli operatori del settore, sono gli “scienziati del latte”, come i microbiologi e i tecnologi alimentari del Distas, il Dipartimento di scienze e tecnologie alimentari per una filiera agro-alimentare sostenibile della facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università Cattolica di Piacenza e Cremona. Ma procediamo con ordine, perché se tutti conoscono il Grana Padano, forse non molti sanno che viene prodotto a partire da latte vaccino crudo che, dopo una parziale scrematura, viene lavorato a caldo con l’aggiunta di un ingrediente fondamentale: il siero innesto.

Il siero innesto è una coltura naturale costituita prevalentemente da batteri lattici termofili, che vivono cioè a temperature relativamente elevate, utilizzata nell’industria lattiero-casearia italiana per la produzione di formaggi tipici a lunga maturazione: non solo dunque il Grana Padano, ma anche il Parmigiano Reggiano e il Provolone. Tra le altre cose, il siero innesto è un bell’esempio di economia circolare e di lotta allo spreco alimentare ante litteram; in quanto è un residuo della caseificazione del latte che, il giorno dopo, viene utilizzato per trasformare altro latte in formaggio. Insomma, un modo di valorizzare uno “scarto” di lavorazione.

Siero innesto Parmigiano Reggiano: come abbattere il tempo durante il monitoraggio

L’importanza del siero innesto

Se le caratteristiche che verranno raggiunte dal prodotto a fine maturazione dipendono da diversi fattori, in questo complesso processo ha grandissima rilevanza proprio il siero innesto, che può variare in composizione microbica e dunque influire sul grado di umidità del formaggio, sulla sua compattezza e sulle caratteristiche sensoriali. Il grande cambiamento che avviene durante la maturazione del formaggio è dovuto a idrolisi proteica, che porta al rilascio di peptidi a basso peso molecolare e amminoacidi. Perché è la combinazione di questi composti che conferisce al Grana fragranze e sapori tipici del prodotto ben stagionato.

Come monitorare il siero

Se l’intero processo produttivo è oggetto di costanti controlli e continue attenzioni, ciò avviene anche per il siero innesto, proprio per il ruolo centrale che ha nella qualità finale del Grana Padano. E su questo, la tecnica si fa affiancare dalla scienza. Al Distas dell’Università Cattolica di Piacenza e Cremona in una recente ricerca hanno messo a punto un nuovo metodo per monitorare il siero innesto. “Il problema – ci spiega la professoressa Maria Luisa Callegari, ricercatrice al Distas – è che le analisi tradizionali del siero, attraverso cioè la coltura batterica in vitro, richiedono troppo tempo per le esigenze produttive: un caseificio ha bisogno di sapere nel minor tempo possibile se un siero innesto è valido. Il nostro sforzo – prosegue Callegari – è dunque stato nella direzione di trovare una via tecnologica che accelerasse il processo di analisi senza perdere, ovviamente, in accuratezza ed efficacia dei risultati”.

La tecnica innovativa

E qui arriva la tecnica innovativa messa a punto dai microbiologi del Distas dell’Università Cattolica. Un uso innovativo di una tecnica già da tempo presente nelle analisi di biologia molecolare. Si tratta della PCR-DGGE, dove PCR sta per Polymerase chain reaction (Reazione a catena della polimerasi) e DGGE per Denaturing gradient gel electrophoresis (Elettroforesi su gel in gradiente denaturante). Tecniche molto complesse che hanno il vantaggio di andare a cercare i batteri presenti nel siero attraverso il loro Dna, anziché per mezzo di analisi tradizionali di coltura in vitro che, per una risposta esaustiva, richiedono anche mesi. La PCR serve “solo” ad amplificare – in sostanza, moltiplicare – porzioni di materiale genetico estratto dai batteri, da analizzare in seguito mediante tecnica DGGE. Quest’ultima è una elettroforesi, nella quale i frammenti fatti migrare su un gel sottoposto a campo elettrico vengono separati in funzione non della lunghezza ma della loro sequenza nucleotidica. Fino a qualche tempo fa questa tecnica era utilizzata per analizzare le specie batteriche: il risultato finale era una sorta di codice a barre in cui ogni singola barra rappresenta una specie batterica. Oggi, per la ricerca di specie vi sono tecniche più sofisticate, ma al Distas hanno recuperato la DGGE per mettere in evidenza i ceppi batterici. In questa DGGE c’è un gradiente di denaturazione: il Dna batterico viene cioè fatto “migrare” in un gel di poliacrilammide sottilissimo in cui sono contenute sostanze che alterano (denaturano) gli acidi nucleici. Per questi motivi, i diversi frammenti di Dna corrispondenti a diversi ceppi batterici si arresteranno lungo il gradiente in posizioni diverse, rivelando la loro presenza.

Applicata al siero innesto

Vista la tecnica di laboratorio, per capire qualcosa in più sull’importanza di questa analisi applicata al siero innesto nell’ambito della produzione di formaggio, bisogna considerare che la perfomance casearia di un siero innesto dipende dalla presenza di determinati ceppi di batteri lattici; e ancor più in dettaglio alla presenza di ceppi di una specie batterica particolarmente importante per la buona riuscita casearia: Lactobacillus helveticus. Ciò che più frequentemente capita in un caseificio è che un siero, che ha funzionato bene per diverso tempo, a un certo punto, e per mille possibili motivi, inizi a risultare, da un punto di vista tecnologico, meno efficiente. Per capire cosa stia accadendo ci vorrebbe un’analisi in vitro, cioè far crescere i batteri in una piastra di laboratorio e su un terreno di coltura, e quindi passare, per mezzo di un complesso processo, a indentificare le diverse specie e i diversi ceppi presenti. Un lavoro molto lungo e costoso che darebbe la risposta ai caseifici qualche mese dopo. Attraverso la tecnica PCR-DGGE, si possono analizzare i sieri e verificare quali ceppi di L. helveticus sono presenti in un siero e arrivare a comprendere in due giorni come il mix di ceppi è mutato rispetto al siero prelevato prima che accadesse il calo di perfomance. Confrontando questo approccio con quello tradizionale c’è come già ricordato la velocità nella messa in evidenza di variazioni della popolazione batterica ma anche una maggior precisione nella determinazione del numero di ceppi presenti. Questo è dovuto al fatto che la DGGE è completamente indipendente dalle tecniche colturali applicate in laboratorio che spesso selezionano solo i ceppi che riescono a moltiplicarsi in queste condizioni favorendoli. Non necessariamente i ceppi selezionati nelle condizioni di laboratorio sono quelli più performanti nel siero e nella cagliata. Dunque, è una tecnica che funziona per confronto, e che quindi necessita di una mappatura dei ceppi precedente all’evento, e sempre eseguita attraverso una elettroforesi su gel in gradiente denaturante. Una circostanza, peraltro, molto frequente nei laboratori di microbiologia che normalmente affiancano i caseifici nella loro attività. Ma è anche una tecnica, per certi aspetti, più precisa di quella in vitro i cui risultati dipendono anche dal tipo di terreno di coltura utilizzato; un problema che non tocca questa analisi che si basa su un parametro fisso: il Dna dei diversi ceppi batterici presenti nel siero.

Stefano Boccoli

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